Imbocco via Brenta e subito riconosco la fontana delle ranocchie. Ogni volta che torno da Bracciano penso la stessa cosa. Ci ho fatto caso proprio stasera, uno di questi sabati da dimenticare. Mi domando sempre se trovo il posto per posteggiare la macchina, “il massimo sarebbe se potessi entrare in garage”. Quasi mai nei giorni feriali, quando la gente “lavora” e se ne frega letteralmente dei diritti degli Altri. La gente in questo mondo tanto strano e vario manca di rispetto quotidianamente, il tragico è che lo fa senza oramai accorgersene. E’ diventato un comportamento istintuale. Riprendo le mie cosine in macchina, dove vivo almeno tre ore al giorno e lentamente risalendo il cortile mi appropinquo a casa. La passione per il mondo verde mi porta ad assaporare il caldo profumo del grande Chymontanthus praecox d’inverno. E poi le Olea fragrans a me tanto care che ho comprato cinque anni fa e che adesso convivono con le ortensie, la camelia bianca, l’ibisco siriano e l’agave di nonno. Penso che quello é il giardino dei ricordi, della Memoria ove ogni pianta ha la sua storia legata alla mia gioventù, ai miei primi esperimenti, a quando giocavo con la terra, insieme a mia mamma colei che mi ha inoculato il virus, inguaribile per fortuna.
Salgo piano nell’ascensore vetusto e arrivo sul pianerottolo. Sono passate tredici-quattordici ore e mi pare un lampo. Apro il grande portone ed entro in casa. Le chiavi da una parte, il giaccone alla nafta dall’altra, mi guardo attorno: le piante hanno sete. Già è ora di annaffiarle visto che sono passati dodici giorni. L’esperimento è riuscito: d’inverno ci vuole meno acqua, tanta luce, niente correnti d’aria. Per innaffiarle ci vogliono tre annaffiatoi da 12 litri e bisogna farle bere quel tanto che basta a non farle appassire, senza ubriacarle. È meglio annaffiarle poco alla volta che imbibirle fino all’inverosimile, fino a farle traboccare con il rischi poi di correre per prendere il mocio… per evitare di buttare il parquet.
Come per incanto, sono a casa. Non c’è nessuno in questi giorni che mi sorride al ritorno. E’ il silenzio con le sue parole a farmi coraggio. Mi libero dei panni da lavoro e come un automa mi metto a mio agio. L’accappatoio lo appendo sul termosifone in bagno, i panni sporchi nella cesta della biancheria da lavare e mentre la vasca si riempie e l’acqua si fa calda, accendo il computer che scalpita per riordinare le idee della giornata. Ogni giorno. Se voglio farmi del male…aggiungo all’acqua di lavaggio-cottura delle gocce di essenza di lavanda provenzale che dicono sia rilassante mentre nel mio caso mi aiuta a ricoprirmi di fastidiose bollicine pruriginose.
Ed ecco la sorpresa che di tanto in tanto fa capolino nel mio ritorno. Quando esco e sto asciugandomi, subitaneo il dolore esce allo scoperto e piano, lento e consumato singhiozza dal mio corpo. I tagli, le spine di rosa, i graffi dei rovi, le scalfitture dei rami iniziano a gemere ricordandomi di essere un Sebastiano terreno. Quasi a definire il mio stato, ecco il mio corpo stanco ricoprirsi di rigagnoli sanguigni. Il rapporto di noi giardinieri con il sangue è molto normale, a patto che sia nostro. Quello degli altri mi impressiona molto. Quello mio, quando ci vuole ci vuole e lo lascio libero di sgorgare a piacimento. Perché fa parte dell’essere giardiniere e dell’accettarsi così come si è. Nel bene e nel male.
BLOOD
